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Capitolo 5

Buongiorno a tutti, qua Miss Mirinda Uè Uaar che vi parla, in diretta dalla frontiera meridionale del nostro viaggio inter-planetario. Siamo già al capitolo 5 e a me tocca raccontarvi della risalita, da Konso fino ad Addis, chiusura ciclica del nostro percorso. Ma non anticipiamo nulla e partiamo da dove eravamo rimasti, anzi, partiamo da un estrapolato apparentemente fuori contesto ma che invece potrebbe descrivere abbastanza fedelmente la nostra situazione in questo momento:

“Così tutti insieme proseguono, ognuno a modo suo, la vita quotidiana, con e senza pensieri; tutto sembra andare per la solita via, come accade anche nelle circostanze più straordinarie, quando tutto è in gioco, che pure si continua ancor sempre a vivere come se nulla fosse”

(W.G)

La frontiera a Sud

Abbiamo oltrepassato la frontiera. Non quella ufficiale: per il Kenya mancano ancora un bel po’ di chilometri. Vista però l’arbitrarietà dei confini africani, io traccerò il nostro personale limite meridionale a Yabelo, anzi, più precisamente, lungo la strada che da Yabelo porta a Konso.

Do un’occhiata alla mappa. Qui i paesi si fanno sempre più radi. Il paesaggio che stiamo attraversando lo conferma. Sempre meno capanne, sempre meno animali, sempre meno persone. Maciniamo chilometri su chilometri su piste sterrate fatte di curve e buche. Siamo al secondo giorno di viaggio costante e ci addentriamo nel nulla, in un paesaggio brullo tra polvere e calura. Siamo nel Far West, anzi, nel nostro Lontano Sud.

L’autobus tace in una sorta di trance meditativa da viaggio estremo. Sono lande desolate regno della surrealtà. Stiamo costeggiando da chilometri il cantiere di quella che sarà la futura strada asfaltata. Un letto di terra abbandonato a sé stesso con qualche fila di pietre ogni tanto, in questo modo le auto non ci passano ma non si esclude che la via venga percorsa e vissuta da varie specie di animali. Incrociamo una mandria di mucche col pastore. Uno scambio di sguardi tra me e lui. Sentirsi uguali ma vedersi così diversi. Ci chiediamo com’è la vita qua, la quotidianità in questa surrealtà fatta di polvere, mulinelli di sabbia e termitai giganti. Dal nulla spuntano dei dromedari, sembrano liberi, anche loro lasciati a loro stessi. Arrivano in direzione contraria alla nostra e, con la calma che li contraddistingue, sfilano accanto a noi, ci guardano serafici e poi continuano per la loro strada. Mi chiedo se anche gli animali ci riconoscano come farenji. Derebè al mio fianco continua a guidare con la sua pazienza quasi zen. Ogni tanto borbotta “What the hell” o “Poor guys”. Ce l’ha con noi che lo mettiamo alla prova facendogli fare delle vie che molti altri si rifiuterebbero di percorrere. Una notte, in una pista nella foresta, mi dice che dobbiamo cercarci un altro autista ma, il giorno dopo, passata la tensione, mi confessa: “I like you guys, how can I leave you in the desert?” Così continua a portarci in giro anche se alle volte lo vedo che si chiede il perché. Ora, nella desolazione, mi dice “Look” indicando la strada davanti a noi “We are alone”, io sorrido e leggo un gran punto di domanda nel suo viso stanco. Cerco di rassicuralo dicendo che è l’ultimo sforzo, che nel pomeriggio risaliremo verso nord.

Costretti dalla scarsa viabilità del Paese stiamo percorrendo vie moleste e inospitali, sembra assurdo, lo so, ma, per quel che mi riguarda lo trovo affascinante, lo trovo necessario. Cerchiamo i posti sperduti, vogliamo arrivare dove il circo non arriva, dove il farenji non arriva. Eccoci. La frontiera, il limite, l’eccesso. Spingersi ai confini del mondo conosciuto tra apatia, solitudine e sconfinatezza. Nella sua semplicità il nulla e il tutto. Sprofondare nell’ignota landa etiopica, toccare il nostro fondo meridionale e poi con calma risalire.

Iniziano a spuntare di nuovo dei villaggi. Ci fermiamo, scendiamo esausti dal bus ed entriamo in una delle caffetterie locali. Dentro la big mama dell’occasione e qualche ragazzo. Una stanza vuota se non fosse per qualche tavolo e sedia in plastica colorata. Ci sediamo e in un attimo veniamo accerchiati. Prima da bimbi e ragazzini, poi da persone di ogni età. Tutto il Paese che vuole vedere i farenji in arrivo. Inizia così la solita solfa. Chiedere un caffè qui non è così semplice come da noi. Soprattutto se siete in dodici, soprattutto se siete stranieri. I tempi sono dilatatissimi, manca sempre qualche ordinazione. Intanto i bambini sbucano da ovunque per chiederti due spicci, i ragazzi cercano moglie, le donne ridono. Voci che urlano, che comunicano incomprensibilmente, cronici fraintendimenti sul pagamento. In risposta gli InZir tirano fuori le clave. Subito un accerchiamento schiamazzante, il solito pubblico da contenere per dare spazio vitale a chi cerca di giocolare. Nico è ancora in doppia colonna su Gera che l’autobus alle loro spalle inizia già a sgasare. Derebè vuole ripartire. Saliamo al volo. Una pausa caffè di dieci minuti, di quelle etiopiche, rilassanti.

Finalmente arriviamo a Konsu, città di confine tra Sidamo e Gamo Gofa, porta per la più selvatica Valle dell’Omo dove, ahinoi, per motivi tecnico-logistici, non ci addentreremo. Il solito palo di legno che fa da sbarra al check point. A questo giro militari e militaresse ci fan scendere tutti dal bus. Son giovanissimi, controllano soprattutto il contrabbando, ci viene spiegato. Salutiamo e ripartiamo. Da qui si apre una valle che è una meraviglia: colline di sabbia gialla con vegetazione rigogliosa, alberi ruscelli ed animali. Per l’ennesima volta cambia il paesaggio, cambiano i colori, cambiamo le fisionomie. Finalmente cala il sole e noi finalmente ci fermiamo.

Arba Minch

Stiamo risalendo verso la civiltà. Macchine e moto al posto di persone a piedi con fascine giganti sulle schiene. Magliette e pantaloni invece che vestiti fatti di teli, tuniche e veli. Carretti con cavalli che trasportano merci. Negozi. Telefoni. Calcetti biliardi e ping pong al margine della strada.

Mi rendo conto che parlare di civiltà è sbagliato, totalmente fuori contesto. Mi rendo conto che lo stesso concetto di città è una categoria occidentale appiccicata a questi luoghi, da qualche tempo prima di me, ma neanche poi da così tanto. Non esistono dei centri, al massimo degli incroci. Non esistono delle piazze: ci sono già i cigli delle strade. È qui che si svolge la vita, gli incontri, gli scambi, dove si svolge la giornata. Succede tutto qui, ai margini delle strade.

Da queste piccole differenze mi rendo conto che devo ancora scardinare molte categorie mentali che mi sembrano assolute – e invece no – non lo sono affatto. Devo ammettere che la piazza, spazio d’aggregazione per eccellenza, nel mio immaginario essenziale in ogni angolo del mondo, da qualche parte si può anche tralasciare, si può farne a meno. Così una serie di altre cose dalla più banale e quotidiana in poi. Come il conto al ristorante, che devi spendere delle mezzore per decifrarlo e dibatterlo. Come cercare di organizzare uno spettacolo e imbattersi in burocrazie e tempistiche che quelle italiane, al confronto, sono una barzelletta. Come riuscire a fare spettacolo e rimanere smarriti dalle reazioni di un pubblico che sembra non avere mezze misure.

Un pubblico che ti studia come se fossi un alieno che arriva da un altro pianeta (e in realtà lo sei, lo devi accettare). Bambini che, con o senza costumi di scena, ti vedono arrivare ed hanno paura, scappano via urlando. Bambini che ti studiano, si avvicinano, s’infervorano, si entusiasmano, invadono degli spazi che normalmente consideri invalicabili. Bambini e poi adulti dietro di loro incontenibili, ingestibili. E quando finisce lo spettacolo inizia la vera invasione. Orde di piccoli etiopi che ti vengono a stringere la mano una due tre mila volte. Urlano, ti toccano, ridono dei tuoi capelli. Ventimila volte “What’s your name?”. Non te ne accorgi e si stanno già arrampicando sulla struttura. Quando abbiamo finito di contenerli e se ne sono andati, tra saluti e autografi, neanche fossi una rock-star, smontiamo al volo e carichiamo tutto prima che cali il buio, che qui cala in un attimo. Allora mi fermo e mi domando cosa sia successo, cos’è stata quell’ondata di energia infantile africana che ti è passata sopra e ancora ti risuona nelle orecchie. Mi domando cosa ho dato, cosa mai sarà arrivato a loro. Non ho risposte e per un po’ non le avrò. Magari a mente fredda, magari da lontano.

L’Arba Minch Circus & Theater Group

Arba Minch, cittadina caotica, commerciale, non-luogo etiopico dove tutto è uguale. Stessi negozi, stesse merci, stesse frittelline all’angolo. Non ci crederesti mai ma dietro uno dei soliti cancelli di lamiera, si apre un cortile con una ventina di ragazzini allegri e saltellanti, sono gli allievi della scuola di circo, gestita da Tesfahun Mergia e supportata dal Ciai – Centro Italiano d’ Aiuti all’Infanzia – sono per la maggior parte ragazzi e bambini di strada. Entri e ti scontri subito con una serie di differenze tra quello che vedi e quello che sei abituato a vedere in una palestra in Europa. Ecco, di quello che sei abituato a vedere, qui, non c’è niente. Materassi a terra recuperati al mercato, qualche gioco per giocolieri, due clave, due anelli un po’ di palline, un traballante trespolo per verticali. Tutto qua il materiale. Energia, invece, ne hanno da vendere. Ci fanno vedere le loro coreografie fatte di acrobazie, contorsioni e piramidi, una colonna sonora fatta di trashissime musiche etiopiche, cariche ed energetiche. Tesfahun presenta il Circo Inzir, Circo Inzir lancia due clave, fa una verticale, in men che non si dica tutti ci stanno imitando. È subito laboratorio.

Passiamo col Circo di Arba Minch tre giorni. Due di allenamento, uno di spettacolo. Per organizzarlo un delirio, Tesfahun chiede permesso per montare la struttura a tutte le scuole del circondario, presidi confusi che non capiscono bene chi siamo, cosa vogliamo fare, dove vogliamo andare a parare. Alla fine abbiamo un via libera, in un attimo spazio e pubblico. In Etiopia pochissimi sono gli orari chiari: quando arrivano i ragazzi a scuola? Non si sa, poi c’è pure la pausa dalla scuola, forse non arriveranno mai. Poi, invece, arrivano, si riempie il cortile. Se è da fare, è da fare adesso. In Etiopia funziona così. Aspetti finché non arriva il momento che, quando arriva, dev’essere colto all’istante. Così all’istante chiamiamo l’autobus, scarichiamo, montiamo. Cerchiamo di comunicare a tutta la scuola che ci servono due orette di lavoro, non importa, loro non se ne vanno, stan là a guardare i buffi farenji e i loro sbattimenti circensi. Per fortuna abbiamo i clownetti che fan ridere anche fuori scena. Nel mentre che montiamo sotto gli alberi nel cortile della scuola, un gruppetto di facoceri sbuca da un aula e trotterella allegramente verso di noi, si sdraiano su un mucchio di sabbia poco lontano, una ragazza arriva e li scaccia fuori a suon di “sciò”. Noi alluciniamo, tutti gli altri no.

Per tutto il resto su spettacoli e laboratori vi rimando ai video che dicono di più di una descrizione a parole. Per qualsiasi altra info sulla scuola cercateli su facebook: Arba Minch Circus & Theater Group.

Ci rendiamo conto che il circo in Etiopia c’è. L’abbiamo visto ad Addis, a Dire Dawa e anche qui ad Arba Minch. Salta fuori da dove meno te lo aspetti ed apre spiragli di crescita, condivisione e creazione costruttiva. Qui, come in Europa, si deve lavorare per valorizzarlo, supportarlo e diffonderlo.

La risalita lungo la Rift Valley

Da Arba Minch continuiamo la risalita lungo i laghi della Rift Valley verso Addis. Ci fermiamo a Sodo in un Istituto femminile. Il nostro contatto è Abba Maurizio, in Etiopia da più di trent’anni, ma ancora viene smascherato da un’indelebile accento bolognese. Dopo due spettacoli e due pasti insieme ci saluta dicendo “Tornate, se vi siete trovati bene, se no, andate da un’altra parte”. Semplice, pratico, logico. Maurizio ci saluta, ha una chiave inglese in una mano, nell’altra suona un telefonino. Mentre risponde gli appiccichiamo la maglietta InZir addosso e ci piazziamo ai lati per una foto ricordo. Lui parla al telefono, sorride e quasi non si accorge di nulla. Per questa tappa un altro particolare ringraziamento va a Carlo, piacevole stimolante e paziente. È confortante quando trovi personaggi di questo stampo in giro per il mondo che siano essi missionari, volontari, viaggiatori.

Prima di arrivare a Ziway ci fermiamo a pranzare sul lago di Langano. A causa dell’alta percentuale di ferro nell’acqua è di colore arancione. L’acqua, dico, arancione. Come quando trovi le montagne gialle, le sabbie nere e gli animali di colori strani. Relatività cromatiche oltre che culturali.

Ziway ultima tappa da Abba Dino, eccezionale oratore, ti spiega com’è vero quel che diceva De Andrè, che è dalla merda che nascono i fiori, che vita sensazioni ed emozioni sono più realistiche qui, tra scarafaggi e zanzare, che in qualsiasi appartamento europeo pulito, ordinato, asettico, mediocre. Riflessioni random che accetto, introietto e nascondo dietro lo stomaco, fuoriusciranno al nostro ritorno e si scontreranno con la “normalità” della nostra vita “quotidiana”.

Incontro fuori dalle righe, una troupe di geologi senesi in Etiopia per studiare evoluzioni e cambiamenti della frattura della Rift Valley. Si sta parlando di tettonica a zolle, continenti che si spostano, mari e monti che si creano e si distruggono. Il succo è che la frattura meridionale di questa enorme spaccatura terrestre, quella che percorre l’Etiopia nel suo centro, si sta lentamente allargando. Un cm all’anno esattamente. Non è tanto da illuderci o illudere gli etiopi di poter vedere il mare in queste zone, ovviamente, ma è abbastanza per insinuare nelle nostre menti un pensiero a tratti sconvolgente sulla questione geo-politica planetare. Anche la terra, nostro habitat millenario su cui poggiano tutte le nostre civiltà, le nostre storie passate e presenti, su cui abbiamo costruito strutture gerarchie e poteri, anche essa non è per nulla stabile, per nulla statica, anzi, è in continuo movimento. Il mondo conosciuto, i suoi confini, le sue dinamiche di forza, quel che vediamo è l’adesso ma poi? Tutto muta, tutto cambia, niente rimane uguale. Qualcuno potrebbe dire di non sedersi sugli allori, di non crogiolarsi nella bambagia, a noi, ignari europei nella nostra piccola bolla di progresso comodità e ovattatezza. Fatevi voi le dovute conclusioni, le dovute riflessioni. Io, con questo pseudo-spunto di filosofia spicciola, di scontatezza ahime mai scontata, vi lascio e metto il punto al capitolo numero 5 di “Looking like Farenji”. Spero che vi stiate divertendo, che ci stiate capendo qualcosa. Lo spero per voi perché qua, in realtà, è un gran delirio.

STAY TUNED